Intercultura
Tutte le storie della creazione e tutti i racconti tradizionali , sia del mondo letterato che di quello illetterato , comunque possano variare nelle opinioni e delle credenze , riguardo a certi particolari , concordano nello stabilire un punto , “ l’unità dell’uomo”. Con ciò intendo che gli uomini appartengono tutti ad uno stesso ordine , e di conseguenza che tutti nascono uguali e con uguali diritti naturali (T. Paine –in “ Diritti dell’uomo e altri scritti politici”; Ed. Riuniti – ROMA- 1978
Spunti di riflessione per co-costruire una comunità inclusiva ed accogliente.
Il Protocollo di accoglienza dell’istituto Comprensivo di Luzzara ha iniziato a trovare una forma più definita , nel tempo in cui il nostro io è stato messo a dura prova da una pandemia che ha chiesto a tutti di riconsiderare il proprio modo di vivere e di relazionarsi con “ le cose del mondo “ e con chi lo abita.
Esso contiene, infatti, quanto è stato pensato e ripensato in questi ultimi mesi ( caratterizzati da condizioni di ristrettezze e distanze estese a tutti ) trovando i suoi incroci possibili declinati in una “ sorta di decalogo” di impegni reciproci, quali punti di partenza per dirigere la bussola verso “pratiche di accoglienza ed inclusione” sempre più consapevoli per costruire “Noità” .
Il Protocollo si ispira alla nostra storia istituzionale: prende spunto dalle istanze inconfutabili di un territorio in continua trasformazione. La comunità luzzarese si è arricchita, negli ultimi decenni, di nuove storie migratorie, di vissuti impregnati di stimoli sempre più complessi, che hanno chiesto agli operatori scolastici di “scomodarsi” a ripensare i propri percorsi nel rispetto di una prospettiva sempre più inclusiva, garante dei diritti umani e dei diritti dei bambini e delle bambine di “culture altre”. L’esperienza del progetto Ali ha consentito, per un tempo significativo, di plasmare coscienze consapevoli sempre più in grado di mettersi al servizio di chi , per ragioni diverse, è itinerante, pendolare, migrante. E contribuito a costruire alleanze per rispondere a un bisogno primario: dotare le persone di strumenti e competenze comunicative per abitare le terre ospitanti. La commissione intercultura, pur rappresentando la continuità delle esperienze messe in campo, da qualche tempo, con il contributo essenziale della rete territoriale, ha riconosciuto il limite del come dare risposte a collettività che devono imparare ad accettarsi, a dotarsi di strumenti che contemplino il rispetto delle pari dignità ed opportunità, anche di genere, per imparare a convivere.
Le tante domande trovano nel protocollo un punto di ripartenza, impegnativo e non esaustivo, intriso di riflessioni e di opportunità di riflessione che implicano il coraggio di scegliere: un documento miliare, a suo modo, cui riferirsi per imparare ad accogliersi reciprocamente ed includere la responsabilità che la comunità educante si assume verso se stessa e verso tutti coloro che entrano a contatto con essa. A partire dalla tentazione di definire e categorizzare.
Categorizzare è sempre efficace “per innalzare dei muri divisori in qualsivoglia confronto tra persone” – Gert Bauman-
Questa premessa non è solo un biglietto di presentazione formale : una ripartenza ha bisogno di riflettere su “provocazioni” allertanti tanto più se i concetti sono tanto citati, quanto poco approfonditi. Così si creano gli steccati culturali tra culture “alte” e culture “altre”. Ci caschiamo tutti! E invece, talune espressioni rimettono in fila e ricollocano in un processo le questioni che noi “comodamente” attribuiamo alla cultura “altra” dalla nostra. Perché la cultura è processuale e si trasforma attraverso chi la agisce e la ripensa oltre la “credenza” .
Il multiculturalismo, invece, resta un enigma. Che si risolve ripensando i termini con cui si è posto. Esso non è il vecchio concetto di cultura moltiplicato per il numero di gruppi esistenti, ma una prassi culturale nuova e internamente “plurale” che si applica a se stessi e agli altri. Basterebbe soffermarsi sulla propria storia personale e collettiva per riflettere che nessuno è uguale a se stesso per sempre. E così ognuno di noi contiene tanti noi diversi.
La cultura, quella che tutti, invece, declamiamo per sentirci appartenenti e illusoriamente protetti, genera differenze e tiene in vita “pregiudizi”, se risponde ad “uno stampo che plasma la vista come una sorta di fotocopiatrice gigante che continua a sfornare copie identiche” (cit. Boas Herder). Essa esiste solo nell’atto di essere eseguita, non può mai fermarsi o ripetersi senza un cambiamento del suo significato. Il nostro obiettivo è il superamento della fotocopiatrice per farci concerto, dentro una jam session storicamente improvvisata. Il cambiamento culturale è il processo rigenerante in continuo divenire di cui l’essere umano, riconosciuto nella sua unicità, è il vero ed unico protagonista-responsabile.
Se è grande il Po.
Chi si incontra là
Abbassa senza accorgersene la voce
E riconosce
Con un’ombra di malinconia
Che siamo davvero uguali.
Cesare Zavattini
Dedicato a chi nel Po vede il riflesso dei suoi sogni (A. Monti)
Il miglior modo per affrontare il problema è guardare in faccia alla realtà:
“Sono la mamma di una bambina di sei anni italiana che ha iniziato da pochi giorni la scuola elementare, abitiamo nel centro storico di Livorno e nella classe di Cecilia, 10 bambini su 22 sono bambini stranieri.
Pensavo di essere preparata a questa cosa, perché ho impostato tutta la mia vita, l’educazione dei miei figli e le mie scelte lavorative in questo senso.
Sono impiegata in un ente pubblico e mi occupo anche di politiche interculturali, nella convinzione che poter conoscere orizzonti culturali diversi dal nostro fosse un’insostituibile occasione di crescita, di apertura culturale, di apertura mentale, di evoluzione.
Invece di colpo, e inaspettatamente, mi sono trovata a fronteggiare anche in me il germe del pregiudizio e così sono qui a domandarmi se per Cecilia questa situazione non sia un ostacolo nel suo percorso formativo di base, perché 10 bambini stranieri sono tanti, perché sono di nazionalità diverse, perché la scuola così viene progressivamente abbandonata dalle famiglie italiane”.
Mamma di Livorno che scrive al ministero dell’Istruzione
“In prima media Khurshid, a cui chiedevo come fosse la sua classe, mi rispose che erano in venti, di cui dieci italiani e dieci stranieri. Impressionata da tanta precisione, gli domandai a quale gruppo lui e il suo amico Diego, di papà italiano e di mamma cubana, pensassero di appartenere. Dopo qualche secondo di silenzio, rispose che non lo sapeva. Non credo potesse dare una risposta più esatta.
Chi può dire infatti di Khurshid, nato in India, arrivato in Italia a sette anni, adottato da genitori italiani, di Diego, nato in Italia da madre cubana e padre italiano, di Aimen, nato in Italia da genitori egiziani, che stanno però per avere la cittadinanza italiana, di Xinqui, nata in Cina da genitori cinesi, arrivata in Italia a sette anni, ma talmente brava in italiano, da fare da interprete alla famiglia e essere addirittura la prima della classe… chi può dire di questi bambini chi è italiano e chi è straniero? Naturalmente l’elenco potrebbe essere molto più lungo, perché tutti i bambini che frequentano una scuola italiana parlano italiano e si comportano come italiani, ma anche un po’ come strani, stranieri.
Non c’è da meravigliarsene: siamo tutti un po’ strani, stranieri l’uno per l’altra, visto che le parole strano e straniero hanno la stessa etimologia!”
Emanuela Nava (scrittrice)
Gli alunni immigrati sono evocatori di stati d’animo, differenti, da una parte c’è chi è preoccupato e diffidente nei confronti dell’alterità, dall’altra c’è chi considera le differenze una ricchezza. Questo testimonia il dibattito attuale sui temi dell’integrazione e dell’intercultura, ma non bastano progetti interculturali e di integrazione per fare intercultura. L’incontro con le differenze linguistiche, culturali, religiose, somatiche non è un fatto sporadico e casuale, ma un elemento quotidiano e normale negli ambiti educativi, nei luoghi di aggregazione, nei servizi sociali e sanitari, a cui occorre rispondere nella solidarietà e nell’accoglienza, oltre il pregiudizio e la discriminazione. L’educazione interculturale subentra ufficialmente nella scuola italiana nel 1990 quando tale definizione entra nel mondo educativo tramite le normative ministeriali. Dagli inizi degli anni ‘90, quando nella scuola italiana cominciano ad entrare bambini e ragazzi di altre nazionalità, gli insegnanti si rendono conto che queste presenze esprimono esigenze, problemi, bisogni e molto altro insieme, dove i volti, i colori della pelle, i silenzi, i linguaggi non verbali, le frasi in lingue incomprensibili esprimono disagi e problemi aperti. Intercultura è un termine che contiene in sé un processo e un programma, dove inter significa interazione, scambio, apertura, solidarietà e reciprocità, sottolineando il processo di confronto, di scambio e di cambiamento reciproco, e cultura indica il riconoscimento dei valori, dei modi di vita, delle rappresentazioni simboliche a cui si riferiscono gli esseri umani come individui e società, proponendo un senso più ampio, non limitato alle forme alte del pensiero e dell’azione, ma esteso all’intero modo di vivere, di pensare e di esprimersi nell’ambito del gruppo sociale. La scuola, in una società multiculturale, può svolgere un ruolo importante nella formazione di cittadine e di cittadini dall’identità planetaria.